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La Fiera di San Giuseppe

Aggiornamento: 23 ott 2021



Boomers.


Così ci definiscono i ragazzi volendo indicare con questo che siamo la generazione che ha vissuto gli anni del boom economico.


Ma per fortuna abbiamo vissuto anche momenti di socializzazione e tradizioni ad esse correlate che oggi sono precluse a tutti.


La normativa vigente, nel tentativo di limitare il diffondersi del virus Sars-Cov2, vieta situazioni di aggregazione altresì denominati assembramenti. Pertanto le nostre esperienze primaverili non possono essere riproposte.


Appena passate le idi di marzo eravamo soliti, dopo lunghi pomeriggi trascorsi a raccogliere frascinë, a rinnovare il rito dei falò. Nell’aria frizzante primaverile già all’imbrunire saettavano nell’aria le lingue di fuoco dei fucarazz che annunciano la festa dedicata al padre putativo del Cristo.


Il fenomeno è comune all’area della Valle del Mercure, ma trova la sua magnificazione nei rioni di Castelluccio. Vale la pena ricordali così come proposti nell’ultimo re-styling.


Già negli ultimi anni i fucarazz non si effettuavano secondo tradizione. Innanzi tutto la metanizzazione del paese ha fatto si che alcuni rioni tradizionali sedi dei fucarazz hanno dovuto modificare il sito per accendere il proprio falò. Comunque non era stato perso quel che i fucarazz rappresentano. Una festa borderline tra il sacro e il pagano, ma soprattutto un momento aggregante della vita di quartiere.


Ne parliamo al presente, in una sorta di forma beneaugurale che ci possa riportare quanto prima alla tanto agognata “Normalità”.



Nell’occasione dei fucarazz tutti si trovano ad essere uniti intorno ad uno stesso leit motiv. I ragazzi e gli adulti di sesso maschile in giro per le campagne a raccogliere arbusti, soprattutto ginestre (spart) a formare gli accumuli di materiale da ardere (i frascinë). Le donne invece si dedicano alla preparazione di leccornie varie, dai dolci tradizionali e tipici a quelli di nuova manifattura.


Non mancano alla tavola imbandita intorno ai fucarazz il salame e il vino locale. La festa è open, anzi tradizionalmente venivano accolti intorno ai falò i ferajùl, cioè i venditori che portavano le loro mercanzie per gli acquisti della fiera e che trascorrevano la notte all’aperto.


Allo scoppiettare degli arbusti, si mangia, si canta e si balla. Sostanzialmente intorno ai fucarazz possiamo classificare due figure tipiche e della tradizione (mi permetto di coniare oggettivamente i sostantivi): gli stanziali e i transumanti.


Gli stanziali sono coloro i quali hanno sgobbato per organizzare il tutto per il loro proprio fucarazz e non si muovono dal loro rione. I transumanti sono quelli che invece trovano giovamento nei pascoli altrui, cioè coloro che nulla hanno fatto nei giorni precedenti la festa e quindi migrano di falò in falò e di rione in rione piluccando dolci e bevendo vino di qua e di là.


Purtroppo anche i fucarazz hanno subito la globalizzazione. Così è sempre meno frequente udire il suono dell’organetto e ballare la tarantella quanto più presente è divenuta la musica dance diffusa dagli altoparlanti dello stereo che ti permette anche di cantare a squarciagola motivetti dettati dal karaoke.


Sebbene il contorno è mutato l’avellano della festa rimane e tradizionalmente si conclude aspettando la cottura delle patate messe ad arrostire sotto la calda cenere, residuo dei fucarazz che quasi all’alba, non più alimentati, tendono a spegnersi.

Anche la fiera del giorno successivo non è più la stessa. Già da più di venti anni, in seguito a un’epidemia di afta epizootica che ha falcidiato i bovini della nostra regione, vige il divieto di vendita degli animali nelle fiere. Proprio la fiera degli animali era invece la garanzia della centralità e dell’importanza dell’evento marzolino. Le vendite e gli scambi di animali portavano gli allevatori e gli agricoltori della Valle a incontrarsi in questo appuntamento di primavera, stagione favorevole anche per il commercio degli ottimi salumi manufatti di Castelluccio e dintorni che godono di meritata fama di prelibatezza e genuinità. Ora che non sono più presenti gli animali in vendita, le bancarelle mostrano le loro mercanzie in un’ aria quasi surreale, non più resa chiassosa da muggiti, belati o ragli ma anche dal divieto della pubblicità a mezzo acustico. Sicché il vociare della gente che struscia in disarmonici moti convettivi umani, in un sali-scendi affollato che porta la gente a stretto contatto, talvolta intimo, fa rimanere immutate una delle caratteristiche di questa fiera che non a caso veniva anche chiamata a “fer du tocca cul”.


Poi tutto velocemente si consuma e resta traccia di quel che è stato nel tiepido fumo che si solleva dalle ceneri ancora calde dei fucarazz.


Questo è quello che a oggi abbiamo della festa di primavera dedicata a San Giuseppe …. semplicemente un ricordo.




Pubblicato su La Nuova, 19 marzo 2021, pagina 15

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