Chi, leggendo questo articolo dovesse cercarvi curiosità tali da poter soddisfare le morbosità tipiche del lettore di cronaca, rimarrà senz’altro deluso.
Non che manchino in questo periodo da proporvi notizie locali di cronaca, nera o rosa o di qualsivoglia altro colore, ma semplicemente gli omicidi annunciati di cui andremo a narrarvi non appartengono a nessun colore se non a quello di una tradizione e cultura di origine contadina lucana, che ormai è in via di estinzione.
Gennaio, fin dall'antichità è il tempo del maiale e del salame.
In questo periodo dell’anno, le strade periferiche dei paesi mercuriensi riecheggiano di grida di dolore e di morte. Ma nessun serial killer è in azione, se non esperti professionisti della mattanza (i cuccìr).
L’oggetto del sacrificio e dunque della presente trattazione è, come vi sarà stato senz’altro semplice intuire, il maiale.
Dopo circa un anno di amorevoli cure, soprattutto di tipo alimentare, il proprietario del maiale si accinge al suo sacrificio finale. In generale, i nuovi maiali da allevare (i rivùt) vengono acquistati alla fiera di luglio che si svolge in località Madonna delle Nevi. Da qui innanzi comincia la quotidiana cura alimentare del maiale da allevare in modo genuino, evitando rigorosamente i mangimi chimici. Il pasto quotidiano è vario, ma non manca mai il pastone brodoso (a jott).
C’è da dire che durante il periodo di accrescimento e di allevamento il nostro amico, il maiale, viene trattato come un principe (se solo sapesse la fine che lo aspetta!). Non mancano cure e attenzioni di ogni tipo e come si racconta lo si portava a fare anche i bagni termali. E’ stato particolarmente curioso raccogliere la testimonianza di alcuni anziani che ricordano come le povere bestie afflitte da patologie articolari o da reumatismi venivano portate alla locale sorgente dell’acqua “a Jaccaredd” (prossima alla ormai famosa San Giovanni) e qui venivano fatte immergere nell’acqua gelida che si reputava possedesse effetti terapeutici. Questo a testimonianza dell’importanza che il domestico animale rosa (ma nell’area del Mercure è presente anche la variante a pelle nera nota come a rrazz vinginiddèr) assumeva per l’intera famiglia.
Come è noto, del maiale non si butta nulla e ogni sua parte viene usata per ottenere specificamente qualcosa, tanto da poter parlare di una vera “fabbrica del maiale”. Un tempo le setole venivano usate per ricavarne pennelli, ma tutti gli strati che si incontrano procedendo in profondità avranno una destinazione d’uso specifico, alimentare e non. Basti pensare anche ai processi di saponificazione artigianale, appunto a base di grasso animale.
Altra sostanza da non disperdere è lo stesso fluido vitale dell’animale: il sangue . Opportunamente raccolto mentre sgorga a getti, sotto la spinta degli ultimi battiti del cuore, dalla giugulare recisa dal coltello, il liquido ematico occorre come elemento base per la preparazione della crema (a gnim) composta anche da cioccolato, riso, zucchero, cannella, uva passa e talvolta qualche pinolo, che costituisce il cuore di un timballo dolce (u Timpèn).
Dunque intorno al maiale una vera e propria festa con un rigoroso cerimoniale, fatto di sequenze di gesti e uso di attrezzi specifici. Una gustosa raccolta degli eventi venne fatta in un sonetto dal titolo “U micidij – a ccisiùn d’u puork-“ dal Tarfed, al secolo Federico Taranto, che in vernacolo descrisse la scenetta in cui due comari parlavano appunto dell’atto finale della vita del suino.
La mattanza del maiale era una vera festa di famiglia, cui partecipavano anche gli amici più stretti, con gozzovigliata annaffiata da fiumi di vino locale. Gli angusti spazi sotto casa (i catuoj) dove venivano tenuti all’ingrasso gli animali, non erano idonei né alla mattanza né soprattutto alle successive operazioni di salamificazione. Il maiale era spesso condotto, meglio ancora trascinato contro la sua volontà, addirittura in casa, facendogli salire gli sghembi dismetrici scalini, fino in cucina. Qui, mentre l’acqua bolliva nel pentolone sul fuoco nel camino, su un traballante pavimento in lastricato, avvenivano le operazioni che precedevano gli ultimi istanti del condannato a morte.
Mentre si doveva porre attenzione anche ai troppi bambini che affollavano la stanza (le famiglie erano spesso numerose), per evitare che si scottassero con l’acqua bollente del pentolone o che non ricevessero qualche morso o calcio della povera bestia che si difendeva strenuamente usque ad ultimam vim, il boia ultimava le sue operazioni lasciando finalmente il campo libero alle operose massaie.
Mani sapienti portano avanti una secolare tradizione di manufatti di salami. La salsiccia di Castelluccio Inferiore è nota nel circondario e non solo. Egidio Irianni (più noto come zù Giddij), mio nonno materno, era solito esportarne a Roma diversi quintali, sempre ben accetti dal commerciante capitolino Di Bartolo.
Castelluccio era noto ai Romani sin da tempi antichissimi, per aver dato i natali al padre di Ottaviano Augusto, il massimo imperatore romano (Svetonio, Vita dei Cesari).
Altrettanto noti e sin dall’antichità erano appunto i manufatti salumi castelluccesi esaltati da Plinio il Vecchio che ne volle importare a Roma la tecnica di manifattura denominando appunto salsiccia lucanica quella confezionata in accordo con le modalità castelluccesi.
Ai giorni nostri, invece molto è cambiato nel cerimoniale, eccezion fatta per la procedura di manifattura dei salami e di produzione del timballo dolce. Oggi locali più ampi e puliti, macchine per tritare la carne, vasche e acqua corrente per lavare le budella (un tempo il lavaggio avveniva ai lavatoi pubblici) rendono tutto più agevole. Eppure, la pancia sazia dei nostri tempi opulenti, ha trasformato un rito gioioso e atteso quasi in un fastidioso obbligo che tedia i più giovani che sempre di meno partecipano alle sopradescritte procedure che richiedono rigorosamente quattro giorni (mattanza, scomposizione in pezzi, salamificazione, frittura dei grassi).
Il rischio è che col tempo si possano perdere queste importanti e antiche tradizioni. Certo la globalizzazione è in piena e inarrestabile corsa, ma la delizia del palato offerta dalla salsiccia di Castelluccio è insuperabile. E il palato, a mio opinabile giudizio, pare essere tra i cinque sensi quello meno globalizzabile, anche perché a zauzicchijë jè semp a zauzicchijë.
Egidio Sproviero
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