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Piano locale di rigenerazione e resistenza | Francesco Bevilacqua



Cerchiara di Calabria, paese di 2300 anime (650 metri di altitudine) ai piedi del versante orientale del Parco Nazionale del Pollino.


In una sua famosa grotta, l’Abisso del Bifurto, Michelangelo Frammartino ha ambientato il film “Il buco”, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia. Compio oggi l’ennesima “erranza” fra le montagne di Cerchiara.


Al confine con quelle di Alessandria del Carretto (380 anime, 1000 metri di altitudine), paese dove ogni anno si tiene la Festa dell’Abete, immortalata da Vittorio de Seta nel cortometraggio del 1958 “I dimenticati”.


Al confine anche con Plataci (680 anime, 930 metri di altitudine), abitato da una minoranza etnico-linguistica arbëresh.


Poco sopra Cerchiara vi è un altro paese, San Lorenzo Bellizzi (570 anime, 830 metri di altitudine), con vista mozzafiato sulla Gola di Barile e le sue imponenti “timpe” di roccia. Dove, qualche anno fa, l’amministrazione comunale mise in vendita a poco prezzo le case di pietre del centro storico, pur di favorire il ripopolamento del paese.Accompagnati dall’amico Paolo Franzese, storico dell’arte, guida ufficiale del Parco, animatore culturale della sua comunità, erriamo, prima fra i boschi e le cime, immersi nei colori accesi dall’autunno e poi fra isolate frazioni di Cerchiara, dove vivono gli irriducibili di una civiltà rurale che scompare.


Nell’osservare le stradine sconnesse, le campagne abbandonate, le vecchie case di pietre, i volti degli anziani induriti dal sole e dal vento, i resti di una cultura antica frammisti ai simboli di una modernità fraintesa, nell’ascoltare il silenzio che grava su tutto e tutti, mi vengono in mente le ineguagliate pagine de “La fine del mondo” di Ernesto de Martino.


Il libro raccoglie tanti appunti del grande antropologo e storico delle religioni, curato dalla storica collaboratrice Clara Gallini e dato alle stampe nel 1977, dopo la morte dell’autore.


Provo sempre una gran commozione nel rileggere il libro, a partire da quel sottotitolo così

eloquente: “Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”.

In queste e in tante altre aree dell’Italia interna si è consumata esattamente un’apocalisse culturale. Culture rurali – mi esprimo così per creare volutamente una distinzione con le culture urbane – che si spensero gradualmente già a partire dalle opere di un Carlo Levi e di un Corrado Alvaro. Che furono “svuotate” dall’emigrazione, soprattutto quella verso il Nord Italia e l’Europa centrale del secondo dopoguerra. Che senso poteva avere parlare di civiltà contadine dinanzi alle “magnifiche sorti e progressive” evocate con perplessità nella poesia di Giacomo Leopardi? Che senso ha riflettere su quello che Nuto Revelli chiamò icasticamente “Il mondo dei vinti”? Che senso ha riproporre la polemica pasoliniana sulla “mutazione antropologica” dell’Italia contadina? Che senso ha, oggi, battersi per la sopravvivenza delle culture rurali (che non sono poi solo tali) nelle aree interne dell’Italia e del Sud in particolare?


Chiunque si azzardi a riproporre questo tema cruciale per una parte non irrilevante della popolazione italiana viene immediatamente tacciato di retorica ruralista, con tutta una serie di varianti, fra cui le più stigmatizzate sono le “retoriche identitarie”, quasi che ci si dovesse vergognare di conservare una diversità, delle peculiarità, una passione per la memoria, la storia, la cultura di luoghi e comunità.

Ma, a far comprendere quanto sia ardua la battaglia dei tanti che desiderano tener vivi i paesi e le campagne dell’Italia interna – lasciando il “mito urbano” a chi ne è fideistico sacerdote – è bastato un breve intervento di tale prof. Donato Iacobucci sull’economia delle aree interne e – udite udite – sullo “spopolamento programmato” di paesi e campagne.


In un momento in cui tanto si discute di “Riabitare l’Italia”, come recita il titolo di un libro a più mani curato dagli economisti Mimmo Cersosimo e Fabrizio Barca, un altro economista, Iacobucci appunto – Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coordinatore della Fondazione Merloni – ci racconta dalle pagine del Corriere Adriatico, citando addirittura Romano Prodi, che è meglio deportare da campagne e paesi la gente – sintetizzo per ragioni giornalistiche – perché fornire servizi in quei posti è troppo costoso per le amministrazioni pubbliche. Quindi meglio ammassare la gente nelle città e usare le aree interne per farci non si sa bene cosa. Non è possibile perpetuare, secondo Iacobucci, quello che il docente definisce “modello insediativo preindustriale”: lui forse non sa che certi luoghi l’epopea dell’industrializzazione è completamente saltata e sono già catapultati nella post-modernità.


E chi glielo dice, ora a Paolo ed a Zi’ Nicola, solitario contadino di Iorine di Cerchiara incontrato durante le nostre peregrinazioni, agli altri amici di Cerchiara, Plataci, Alessandria del Carretto, San Lorenzo Bellizzi che il destino dei loro paesi è segnato dallo “spopolamento programmato” del buon Iacobucci (e forse anche di Prodi)? Chi glielo dice che i luoghi dove hanno scelto di vivere e lavorare, dove stanno allevando i loro figli, dove stanno provando a costruire futuro dovranno divenire solo delle giostrine per divertire gli annoiati turisti provenienti dalle città o per far lucrare i tanti cani all’osso delle energie green? Chi glielo dice che dovranno lasciare case, orti, boschi, orizzonti sconfinati per trasferirsi nelle metropoli con milioni di abitanti (non meno, perché altrimenti accudire i residenti costa troppo)? Chi glielo spiega che dovranno rassegnarsi a veder chiudere gli uffici pubblici, le scuole, le guardie mediche, gli asili? Non io, caro prof. Iacobucci. Non io, che vivo in campagna, in un posto dove considero gli incendi ciclici, i disservizi idrici, elettrici e telefonici, la strada che frana ad ogni pioggia solo dei piccoli prezzi da pagare per non avere a che fare continuamente con uomini come lei che ragionano solo in termini di economie di scala, che considerano le persone occasioni di profitto e che ignorano la bellezza di quel che ancora resta di una storia, una cultura, una natura che sono mille volte più tenaci di qualunque Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.


Sono anch’io un “vinto”, come Zi’ Nicola, un “avvinto” a quel mondo di cui voi algidi economisti vorreste decretare la fine: riusciremo a sopravvivere anche al suo piano di “spopolamento programmato”.


Perché, ove non glielo avessero già riferito, abbiamo appena varato il nostro PLRR: Piano Locale di Rigenerazione e Resistenza.




Pubblicato il 10/11/2021 sul Corriere della Calabria


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